Le spie cinesi in Italia e in Europa

L’attività di intelligence cinese in Italia è notevole e ad essa corrispondono le remore di alcune autorità italiane, allertate dagli Usa. C’è da chiedersi il motivo di tali remore.

Gli americani sono preoccupati che la sicurezza sia messa a repentaglio dalla infiltrazione di strumenti di ascolto e di controllo.

Di Cinesi si parla poco, eppure i loro uomini si stanno infiltrando nei governi occidentali, in maniera più lenta, subdola ed efficace”.

Nel 2012 l’intellingence cinese è passata da una modalità passiva a una modalità attiva.

Le priorità sono sì raccogliere informazioni sulla tecnologia militare e penetrare la rete internet, ma soprattutto comprare funzionari e famigliari delle élite politiche e del mondo degli affari perché si muovano affinché gli accordi tra terze parti siano sempre favorevoli alla Cina.

In Canada, Australia e Nuova Zelanda recentemente si sono dimostrati diversi tentativi da parte cinese di comprare influenza presso politici, università e think tank affinché siano questi ultimi a sponsorizzare i loro interessi.

Complicato, dunque, distinguere, il soft power dall’intelligence e gli affari dal condizionamento politico se c’è di mezzo la Cina.

E’ ormai opinione comune che gli sforzi cinesi nel raccogliere informazioni siano raddoppiati negli ultimi anni, specialmente dalla riforma dell’intelligence del 2016 e dalla riorganizzazione del ministero della Sicurezza di stato.

Il reclutamento cinese invece si basa sull’invisibilità e soprattutto sul futuro: l’obiettivo è quello di avere sempre più voci amiche nei paesi stranieri, ed è un gioco a lungo termine.

Bruxelles ha pubblicato un report nel quale segnalava la presenza nella capitale europea di “almeno 250 spie cinesi” sotto copertura.

Secondo l’intelligence interna (Dgsi) ed esterna (Dgse) di Parigi, i servizi cinesi, negli ultimi anni, hanno tentato di intromettersi nelle più alte sfere dell’amministrazione statale francese, nell’industria e nei grandi circoli del potere esagonale, attraverso social network come Linkedin, Viadeo e l’utilizzo di avatar digitali.

Nel dicembre 2017, l’intelligence tedesca aveva già denunciato le operazioni aggressive di Pechino, facendo sapere che erano stati contattati circa 10mila profili.

In Italia la penetrazione cinese si muove a tutto campo.

La People’s bank of China, che è la banca centrale cinese, equivalente della Banca d’Italia o della Fed Usa, possiede quote importanti di Intesa San Paolo, di Generali, di Eni, di Enel, di Terna, di Unicredit. I Cinesi con State gride corporation of China, colosso statale dell’energia, posseggono il 35 per cento di Cdp reti.

Cagliari diventerà la prima smart city italiana grazie alle reti integrate, ma soprattutto grazie alla tecnologia di Huawei, il colosso cinese che dopo aver investito 20 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, oggi è diventato leader mondiale nell’infrastruttura 5G, che sta costruendo in tutti i Paesi. Vuol dire reti ad altissima velocità per la comunicazione mobile, per la connessione a droni, sensori, auto a guida autonoma, oltre che per la digitalizzazione di tutte le infrastrutture pubbliche: monitoraggio di ospedali, controllo del traffico, gestione dei rifiuti, riscaldamento e sicurezza.

L’Italia ha aderito al piano cinese di espansione in Europa (Via della Seta) nonostante le perplessità di Berlino, di Parigi e degli Usa.

Nel frattempo, a novembre l’Unione europea ha votato una legge che prevede uno screening degli investimenti diretti stranieri che possano mettere in pericolo la sicurezza, e il 7 gennaio l’università inglese di Oxford ha sospeso l’accettazione di fondi per la ricerca e donazioni filantropiche dal gruppo cinese.

L’Italia, nonostante gli avvertimenti ricevuti dal Copasir negli ultimi dieci anni, ha invece messo le sue reti in mano all’azienda cinese.

Persino la Panic Room di Palazzo Chigi, la stanza di massima sicurezza della presidenza del Consiglio, «passa attraverso due grandi nodi: il primo con i router di Tim, e quindi è fatto da Huawei», afferma Esposito. «Se ci fosse un microchip, loro potrebbero ascoltare o addirittura vedere in video il presidente del Consiglio: è possibile, ma non è mai stato provato».

Nella lista nera del Governo americano compaiono Huawei Italia e il Centro di ricerche di Segrate, il quale è uno degli undici centri di ricerca e sviluppo di Huawei sparsi per il mondo che appaiono scritti nella aggiornata Entity List. Quello di Segrate, alle porte di Milano, è stato il primo centro ricerca globale a essere inaugurato da Huawei fuori dai confini cinesi e guidato da uno dei più noti scienziati della compagnia: Renato Lombardi, impegnato nello studio delle tecnologie delle microonde usate nella comunicazione mobile e satellitare.

L’Italia quindi lascia le porte aperte al colosso cinese.

Gli esperti di sicurezza degli Stati Uniti ritengono che con l’aiuto di Huawei, il governo cinese sarà in grado di interrompere, sospendere, reindirizzare o monitorare il traffico Internet utilizzando stazioni di terra per cavi sottomarini, nonché attraverso l’hardware e il software che Huawei fornisce per queste stazioni.

Ren Zhengfei, il fondatore di Huawei, viene descritto come un genio delle comunicazioni, con un passato al servizio dell’esercito e del partito comunista cinese (anche se, visto il passato familiare di vicinanza al Kuomintang, non è mai stato portato ai vertici dell’apparato).

Nel nostro Paese la Huawei ha investito molto e le maggiori aziende di telecomunicazione (tra cui Telecom e Vodafone) hanno fatto e fanno ricorso alla tecnologia prodotta dalla società cinese. Secondo quanto sostengono alcune fonti, la tecnologia prodotta a Shenzhen verrebbe usata anche all’interno di reti protette su cui transitano informazioni potenzialmente sensibili.

«In base alle informazioni di intelligence che sono di pubblico dominio si sa che la Cina porta avanti una strategia di cyber-spionaggio industriale molto aggressiva, del resto necessaria per tenere il passo con i progressi tecnologici degli Stati Uniti e degli altri competitors», spiega Stefano Mele, coordinatore dell’Osservatorio InfoWarfare e Tecnologie emergenti dell’Istituto Italiano di Studi Strategici. «Considerato poi lo stretto legame che esiste in Cina tra imprese private, partito comunista ed esercito della Repubblica popolare, è ovvio che ci siano timori che Pechino possa aver affidato ad aziende cinesi – informalmente magari, e sicuramente solo ai massimi livelli – anche compiti non strettamente commerciali, anche se per ora non ci sono prove in questo senso. Le reazioni degli Stati Uniti e degli altri Paesi sono tuttavia indicative di questa preoccupazione».

In questo ambito in particolare, l’azienda che produce un dispositivo tecnologico potrebbe inserire all’interno dell’hardware un chip – ma si può agire anche a livello software – che permette l’accesso e lo spionaggio di tutte le informazioni veicolate.

Un cip difficilmente scopribile. Nell’ambito dell’informatica, infatti, i sistemi di protezione, come ad esempio l’antivirus o il firewall, girano al di sopra del kernel (semplificando, è il cuore di ciascun sistema operativo ndr). Perciò, questo genere di protezioni non riescono a “vedere” ciò che gira all’interno dei firmware dei chip che costituiscono hardware, che, pertanto, vengono considerati dal sistema operativo affidabili di default. Quindi se il trojan  che “ruba” le informazioni, o la backdoor che vi consente l’accesso, è a livello hardware non si riesce a rilevarlo. E casi simili, purtroppo, sono anche già documentati e da tempo noti agli esperti.

È molto difficile scovarlo anche smontando l’apparecchio, in quanto è un pezzettino di plastica identico a tutti gli altri contenuti nella scheda, e certamente non ha un cartello luminoso che lo evidenzia come chip-spia.

Cosa dovrebbe fare l’Italia? Dovrebbe innanzitutto porsi, con estrema urgenza, il problema di verificare la filiera produttiva dell’hardware e del software che introduciamo nelle reti sensibili e riservate del nostro Stato (una questione questa che in America è stata di recente posta dal direttore della National Intelligence tramite una direttiva). Senza un controllo di questo tipo, al di là dei possibili esiti, potremmo rendere la vita veramente facile a chiunque voglia carpire informazioni sensibili. L’Italia deve iniziare a discutere anche di questi problemi, valutandone al più presto i rischi al fine di garantire al meglio la tutela della sicurezza nazionale e dei propri interessi economici.

Il governo e il Parlamento italiano non sembrano disposti a parlarne.

Considerato l’interesse che i cittadini, le imprese e molti altri soggetti potrebbero avere nella vicenda appare molto negativa l’impossibilità di aprire una discussione pubblica. Specie se si pensa che l’Inghilterra – alleata di ferro dell’America, patria di uno dei migliori servizi segreti del pianeta e non certo nota per lavare i panni sporchi in piazza – sta affrontando proprio in questi giorni la medesima questione, coinvolgendo però i media, gli organi politici e l’opinione pubblica.

La questione Cina è di fondamentale importanza e sta assumendo una accelerazione strategica che può portare definitivamente l’Italia nell’orbita del Dragone.

©Silvano Danesi

 

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