Atei, intellettuali di sinistra e il gatto Pinocchio

Telmo Pievani, su Micromega 6/2017 ci ricorda che Eugenio Scalfari, su l’Espresso del 23 luglio 2017, ha “annunziato urbi et orbi che gli atei, militanti e nichilisti, hanno un io elementare, «un io che non pensa». Peggio, essi possiedono «un io di stampo animalesco»”.
Ecco cosa pensa e cosa scrive uno dei maître à penser della sinistra italiana. Si può essere non atei, agnostici, credenti, indifferenti, ma atei no. Se uno è ateo e lo dice apertamente è un animale. Uno può dire: “A me di Dio non me ne importa niente. Mangio, bevo e scopo e mi va bene così” ed è un umano. Uno che dice: “Non c’è Dio”, è un animale.


Ora, si può discutere a lungo sul fatto che chi dice che Dio non c’è non abbia le prove per suffragare la sua affermazione, così come chi sostiene che c’è. E poi quale Dio scegliere? Sul pianeta ci sono varie religioni, ognuna con il suo Dio che, ovviamente, è il vero, l’unico e il solo. Ci sono «esseri umani» che in nome del loro presunto Dio ammazzano, violentano, distruggono, terrorizzano, ma non sono animali, perché non sono atei. Ci sono poi quelli che dicono che Dio è immanente, ossia che tutto ciò che è manifesto o che lo è in potenza è Dio. Ci sono anche quelli che dicono che Dio è un’intelligenza universale, una sorta di infinito campo informativo che forma e informa ogni cosa. Animali o esseri umani? Uomini o bestie? Un tempo c’era la Dea Madre Universale, la Potnia, la Potente. Poi sono arrivati gli Dèi del cielo: Mitra, Varuna, ecc. Quelli che ancora pensano che tutto sommato gli Dèi siano meglio di un Dio unico intollerante dove li mettiamo? Bestie? Animali? Esseri inferiori? Infine gli atei. Pensano che Dio non ci sia, che tutto sia materia? Mah!. Quelli sono i materialisti. E gli atei? Cosa pensano gli atei? Non pensano, parola di Eugenio Scalfari. Hanno un io da animali.
Sarebbe interessante sapere in quale delle varie versioni di Dio crede Scalfari, ammesso che creda.
Certo è che nel 2017, leggere affermazioni che starebbero bene in qualche tribunale della Santa Inquisizione è davvero deprimente. Andando dritti per la strada dell’ateo uguale ad animale si arriva ai sotto uomini e diritti diritti nei lager. Ma gli intellettuali di sinistra dicono di essere antifascisti, anti nazisti, democratici, laici. Peccato che non conoscano la legittimità del libero pensiero, il quale, essendo libero, può anche pensare che Dio non c’è. Con gli atei si può aprire una discussione libera e democratica, ma dire che «possiedono un io animalesco» è davvero un modo di pensare insensato (pensare?).
Atei, avete un io animalesco e un io che non pensa. State attenti. Lo dice un grande intellettuale della sinistra italiana. Questa volta siete fregati. Io me la cavo di striscio: mi piacciono gli Dèi, quelli di una volta, che qualcuno chiama archetipi e penso (Eugenio permettendo) che ci sia un’intelligenza universale che è origine (archè) e ordine (logos) di tutto quanto abbiamo intorno, noi compresi. Sono un essere umano o un animale senza facoltà pensante? Mi è venuto un dubbio. Questa sera ne parlo con Pinocchio, uno splendido gatto persiano bianco che di Scalfari se ne frega.

Silvano Danesi

I politici europei a scuola da Costantino

Nel 313 l’imperatore romano Costantino, figlio di Elena e di Costanzo Cloro, disse di aver visto nel cielo il segno della croce e concepì una strategia ben precisa dal titolo: “In hoc signo vinces”.

Costantino aveva capito, forse lo aveva capito prima di lui sua madre Elena, che l’Impero romano era messo male e che era necessaria una svolta.

Costantino pose così le basi della Nuova Roma, quella Costantinopoli, poi Bisanzio e ora Istambul, la cui potenza territoriale e militare durò fino al 1453, esattamente 977 anni dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, con la deposizione di Romolo Augustolo.

A Occidente, con un’intuizione geniale, Costantino sostituì la potenza militare e territoriale, ormai in disfacimento, con quella ideologica: il cattolicesimo apostolico romano, al quale ha delegato il compito di legittimare i re, facendo del Papa di Roma il nuovo pontifex romano, ossia un imperatore in altra forma.

Teodosio ha poi affinato l’operazione dichiarando la religione cattolica apostolica romana religione di stato ed eliminando tutte le altre come illegali. Il cattolicesimo apostolico romano è così diventato il gendarme dell’Impero romano in Europa per oltre 15 secoli.

I papi, a loro volta, hanno legittimato la successione con un falso, la “Donazione di Costantino”, ma, si sa, la “verità” storica la scrivono i vincitori, anche se il diavolo insegna a fare le pentole e non i coperchi e così, la verità, grazie a Lorenzo Valla, è venuta alla luce.

La cosiddetta “Donazione di Costantino” è il documento su cui, per secoli, la Chiesa di Roma ha fondato la legittimazione del proprio potere temporale in Occidente; si attribuiva infatti all’imperatore Costantino la decisione di donare a Papa Silvestro I, una sua creatura,  i domini dell’Impero romano d’Occidente.

A Costantino si deve il Concilio di Nicea del 325 che pose le basi di quella che oggi è la religione cattolica, ossia il cristianesimo costantiniano.

Il cattolicesimo apostolico romano ha regalato all’Europa luminosi esempi di cultura e di civiltà e, al contempo, nefandi esempi di incultura e di inciviltà, ma nei secoli si è affermato come una radice significativa d’Europa, non essendo riuscito, peraltro e per nostra fortuna, nonostante la violenza usata, ad eliminare le altre, precedenti e ben profonde e vitali.

Il genio di Costantino è consistito nel saper interpretare la lezione della storia e nel saper cambiare regole e scenario.

Alla scuola di Costantino dovrebbero iscriversi i politici europei di questo inizio di terzo millennio, chiusi nella rigidità di regole superate da eventi che hanno cambiato, dal Trattato di Roma ad oggi, il mondo a tal punto da renderlo irriconoscibile agli occhi di un uomo del 1957.

Classi dirigenti ossificate, incapaci di dare risposte all’altezza delle sfide attuali, stanno portando l’Europa alla deriva.

La vicenda spagnola di questi giorni è solo uno degli esempi di tragica incapacità delle classi dirigenti.

Gli italiani non sono da meno. Ministri e parlamentari che fanno lo sciopero della fame per far approvare una legge che divide il Paese sono semplicemente patetici. Meritano un cappuccino e, alle prossime elezioni, quando finalmente ci saranno, un cortese accompagnamento alle loro privatissime dimore.

Per l’Europa ci vuole una svolta decisa ed epocale, che chiuda la fase dell’oicofobia, malattia che la devasta e che presenta le nostre conquiste di civiltà inferiori a quelle di mondi e di popoli che sono prigionieri di logiche tribali e teocratiche che l’Europa ha superato grazie a secoli di elaborazione culturale, non facile, spesso dolorosa, ma alla fine efficace.

Dobbiamo essere di nuovo orgogliosi della nostra civiltà e dei suoi valori, tra i quali, al di là delle questioni di fede e degli errori secolari delle chiese, ci sono quelli che ha prodotto il cristianesimo, che ora va difeso e riproposto in termini unitari come acquisizione culturale.

Dobbiamo rivendicare un ruolo dell’Europa nel mondo, così come lo rivendicano altre grandi potenze, come Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina.

Dobbiamo smetterla di fingere di essere accoglienti, secondo gli schemi del Papa venuto dai confini del mondo, dove avrebbe fatto bene a rimanere, lasciandoci in compagnia di Benedetto XVI (costretto a dimettersi), perché l’accoglienza si è rivelata ormai con il suo vero volto: acquisizione di riserva di manodopera a basso costo, caporalato, sfruttamento, alimento di mafie e di criminalità organizzate.

Dobbiamo anche pensare che gli stati ottocenteschi, per quanto rinfrescati nel secolo scorso, non sono più all’altezza della sfida e sono destinati a dover cambiare profondamente il loro essere, a fronte della globalizzazione se non vogliono essere causa di tensioni crescenti.

Dobbiamo, infine, toglierci di dosso il senso di colpa che ci distrugge e mandare al diavolo i predicatori del buonismo imbelle e del politicamente corretto, che è diventato la nuova Santa Inquisizione per impedire una delle conquiste più alte della civiltà europea: l’espressione del libero pensiero, senza che i censori  dell’intellettualismo mondialista ci dicano cosa dobbiamo pensare per essere etici, corretti, buoni, accettabili, intelligenti, colti, civili. Di lor signori, che “tirano quattro paghe per il lesso” alla greppia del mondialismo, non sappiamo cosa farcene e, a dire il vero, di lor signori non ne possiamo più.

Silvano Danesi

La storia ci chiede di riscrivere l’Europa

La vicenda catalana, esplosa in questi giorni con il referendum indipendentista, ha aperto una fase nuova nella storia dell’Unione Europea. Una fase nuova che implica la necessità di riscrivere l’Europa.

La frase «Se non hanno più pane, che mangino brioches» è tradizionalmente attribuita a Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, che l’avrebbe pronunciata riferendosi al popolo affamato, durante una rivolta dovuta alla mancanza di pane. In effetti la regina non l’ha pronunciata, ma la frase è diventata famosa per il contesto nel quale è stata collocata e per la persona a cui è stata attribuita e ci comunica che chi non capisce le svolte della storia fa una brutta fine.

Ora le Marie Antoniette si sono insediate ai vertici dell’Unione Europea, che rispondono ad un problema di enorme portata, come quello della richiesta di indipendenza della Catalogna, dicendo che ci vuole dialogo, ma che la questione è del tutto interna alla Spagna.

L’Unione Europea è nata da un accordo tra stati e uno stato è un’entità giuridica che ha sovranità su un territorio, ma non è necessariamente coincidente con un popolo. Non a caso, la Spagna è formata da un insieme di popoli, tra i quali, sia detto per inciso, quello dei Baschi è il più antico del continente, avendolo ripopolato dopo l’ultima glaciazione.

La nazione non è uno stato e nemmeno un popolo, in quanto è semplicemente il luogo nel quale si è nati.

Infine, il popolo è un insieme di individui riuniti insieme, sotto vari aspetti: territorio, lingua, leggi, religione, usi, costumi, ecc.

L’idea di un’Europa come patria comune, che gli europeisti sostengono con forza, non poteva che avere un effetto nel rapporto tra popoli, nazioni e stati, con la messa in discussione di questi ultimi, in quanto nati da forzature storiche che si chiamano conquista.

La globalizzazione ha messo in moto un processo inarrestabile, che può essere condotto in vari modi, ma che presuppone una lucidità e una progettualità che le attuali classi dirigenti europee dimostrano di non avere.

Stare seduti su vecchi principi non serve a nulla quando la storia si incarica di travolgerli.

Una prima considerazione essenziale è che nella globalizzazione le aree forti economicamente e strutturate in quanto a filiere produttive dialogano tra di loro e con il mondo, superando gli stati nazionali. Piaccia o non piaccia è un dato di fatto.

La seconda considerazione essenziale è che gli stati europei, così come sono attualmente, sono costruiti su paradigmi ottocenteschi e con burocrazie obsolete e opprimenti.

La terza considerazione essenziale è che gli attuali confini degli stati nazionali sono il frutto di processi storici dove il tracciamento dei confini è avvenuto in base a guerre, vittorie e sconfitte che nei secoli hanno costretto i popoli in una camicia di forza che non sempre hanno condiviso.

La quarta considerazione essenziale è che la presenza dell’Unione Europea, che sconta un’origine basata sugli stati, è per la sua stessa esistenza un elemento di indebolimento della necessità degli stati nazionali e un elemento di rafforzamento delle aree economiche  o etniche nel loro desiderio di dialogare in un ambito più ampio di quello degli stati in cui sono incastonate.

Tutto questo genera uno scenario completamente nuovo e diverso da quello di quando vennero scritti a Trattati di Roma, che sconta una distanza di mezzo secolo in termini di tempo e una distanza di mille anni luce in termini di geopolitica mondiale.

La posizione della Comunità Europea è miope. Il tema che la storia ci pone davanti non è di continuare a pensare all’Europa come ad un insieme di stati, ma ad un’Europa  completamente diversa: un’Europa da riscrivere.

Si può pensare ad un percorso, come ha fatto Macron alla Sorbona, verso uno stato unitario europeo. Un percorso che il presidente francese ha suddiviso in alcuni grandi appuntamenti, il primo dei quali è la difesa e la sicurezza, con una “Cultura strategica comune”, una capacità di azione autonoma, complementare alla Nato”, una “forza comune di intervento”, un’intelligence comune e un’azione comune tesa a controllare “le nostre frontiere preservando i nostri valori”.

In politica estera ha indicato come priorità il Mediterraneo, un’indicazione condivisibile e strategica, e un intervento a sostegno dell’Africa, che si pone come il nuovo orizzonte per l’Europa.

Macron ha poi messo sul piatto le politiche energetiche e quelle produttive, la ricerca e l’innovazione, il rispetto della proprietà intellettuale, la riscrittura di una “grammatica di un modello sociale rinnovato”.

Il modello Macron implica un approdo finale ad uno stato Stato Europeo fortemente integrato, che, per il fatto stesso di esistere, depotenzia, di fatto, gli stati ottocenteschi che diedero vita all’Unione nel 1957.

Quello di Macron è un percorso, bisogna saperlo, che darebbe ulteriore spazio alle rivendicazioni di indipendenza dei popoli e delle aree forti del sistema europeo.

Il processo potrebbe, pertanto, anche passare attraverso l’indipendenza di alcuni popoli da alcuni stati, con la creazione di nuove entità statali. L’importante sarebbe che la Comunità Europea fosse in grado di armonizzare gli interessi dei popoli per farli sentire fratelli in una casa comune.

Una seconda via è quella di uno Stato Federale Europeo, con un Governo Federale, così come è l’America degli Stati Uniti.

Tuttavia, anche in questo caso, la valenza degli stati ottocenteschi, per quanto rinnovati nel secondo dopoguerra, verrebbe ad essere fortemente indebolita, a favore di un’autorità europea, alla quale potrebbero rivolgersi popoli, etnie, aree omogenee, per chiedere voce, riconoscimento, legittimazione.

La vicenda della Catalogna, ben oltre i suoi connotati specifici, apre una pagina nuova ed inedita. In discussione non è solo la Spagna, ma il concetto stesso di Europa degli stati, dei burocrati e della finanza.

E’ evidente che le attuali istituzioni europee sono inadatte alla bisogna e gli uomini che le dirigono sono tante Marie Antoniette. La regina finì male, perché non seppe capire ed essere all’altezza della storia: perse la testa per aver perso la testa.

E’ giunta l’ora di cambiare l’Europa dalle fondamenta.

Bisogna cominciare a ripensare l’Unione per portarla ad essere altro da quella che è ora. La storia è come i fiumi: prima o poi esonda e non concede sconti.

Purtroppo, è doloroso constatare che le classi dirigenti attuali non sono all’altezza del problema che la storia pone. E questo è il problema dei problemi.

Silvano Danesi