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Il culto della casa e dei morti

Alcune divinità basche sono legate alla terra, alle costruzioni sacre, alla casa.

Intxitxu era spirito invisibile che costruiva i cromlech. Irelu era spirito sotterraneo e la sua canzone si confondeva con il suono del vento. Beigorri era il guardiano di molte dimore di Mari ed era legato al bosco e al culto della casa: exte.

Gli antichi Baschi veneravano la memoria dei defunti il primo di novembre, giorno d’inizio della festa d’inverno, con l’accensione di sottili candele (argizaiolak). Le assonanze con la festività celtica di Samain sono evidenti. Il carnevale veniva festeggiato con la danza delle streghe e il solstizio d’estate con dei falò nelle campagne.

Il loro dio universale era Jaungoikoak o Jangoikoak, signore della luna, colui che diede origine ai tre principi della vita: Egia, la luce dello spirito; Ekihia, il sole, la luce del mondo e Begia, la luce del corpo.

Il popolo basco è legato al culto della casa, etxe: luogo fisico di origine, ma anche tempio e cimitero, simbolo e centro comune dei vivi e dei morti di una famiglia, protetto dal focolare simbolo della Dea Mari. Il potere soprannaturale di Exte risiede nell’alloro del suo orto o in quello che si conserva in casa, nella cenere del focolare, nei diversi rami di biancospino, di fiori solstiziali, del cardo silvestre, simbolo del sole, dall’ascia e dalla falce dotate di poteri mistici, ma anche per essere la dimora degli spiriti degli antenati e luogo da essi visitato per la perenne offerta di luce che si accende nelle anime conservando il fuoco del focolare, conformemente ad una rituale prescrizione o norma di «illuminare i morti almeno con una candela», per l’usanza di depositare sulle finestre offerte commestibili per i defunti e, infine, per il costume antico di orientare la sua entrata principale verso il sole nascente. [i]

[i] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa

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Il lascito culturale dei Baschi

La cultura e la religione dei Baschi sono di grande interesse per l’Europa, in quanto avendo i Baschi ripopolato il continente dopo l’ultima glaciazione, hanno lasciato tracce profonde nelle culture successive.

In primo luogo va considerato, come spiega José Miguel de Barandarian, uno dei maggiori studiosi della mitologia basca, che “secondo una frase popolare, il reale comprende non solo quanto percepiscono i sensi e congettura e assicura la ragione, ma anche tutto ciò che ha un nome. Izena duen gutzia omen da si dice correntemente, il ché significa che ad ogni nome corrisponde un essere”. I nomi sono rappresentazioni sonore delle cose.

Questa idea implica che i Baschi diano lo stesso status di realtà a tutto ciò che noi oggi consideriamo come scientificamente osservabile e determinabile e anche a tutto ciò che determinabile non è secondo il moderno criterio scientifico. Un genio come Mari, per il fatto stesso di avere un nome, esiste ed è reale, così come lo è il mondo dei trapassati. Un’idea, quella dei Baschi, condivisa dalla cultura celtica e da quella druidica per le quali l’aldilà e l’aldiqua avevano lo stesso status di realtà, al punto tale che i Celti si facevano prestiti esigibili nell’altro mondo.

Nel mondo basco non si trova dissociazione tra lo spazio ed il tempo, in quanto “il primo domina e ingloba il secondo. Troviamo – scrive Carlo Barbera – solo una leggera differenza nei sostantivi che designano tempo/spazio e momento/luogo: une/gune, arte/tarte, aldi/alde. Nel verbo stesso esiste quello che si definisce «l’aspetto», che è in definitiva «ciò che può succedere nello spazio-Alde, essendo il tempo-Aldi solo una qualità o caratteristica dello spazio»”. “Una caratteristica delle voci euskariche è che funzionano per contrapposizione. Oltre a une/gune e ad altri troviamo le più importanti opposizioni di ur/lur/urte (acqua, terra, anno) che denotano l’unità cosmica di tutto ciò che esiste nel tempo-spazio”.

I Baschi distinguevano tra il mondo naturale (berezko), conoscibile e affrontabile con gli strumenti naturali e il mondo soprannaturale (aideko) affrontabile con la magia, dove la magia è la capacità di rapportarsi a forze e dimensioni non categorizzabili nel misurabile, secondo i parametri dei cinque sensi e delle loro estensioni strumentali.

Il legame tra le cose e le loro rappresentazioni era chiamato Adur. “La forza magica Adur – scrive in proposito Carlo Barbera – è la consapevolezza che ogni cosa esistente in questa dimensione possiede un corrispondente vibratorio che appartiene ad un’altra dimensione, connessa alla prima da precisi vincoli causali che le rendono fra loro come il soggetto e l’immagine di esso riflessa nello specchio. …. Addentrarsi nella mitologia basca – aggiunge Barbera – significa essere consapevoli che il mondo non termina dove noi crediamo e che ciò che noi definiamo realtà potrebbe essere solo una parziale immagine riflessa di una realtà multidimensionale, inimmaginabile e fantastica che sembra essere, appunto, quella dell’antico mondo dei Baschi”.

Il cielo, comprendente il sole, era Osti, o Ostri, o Ortzi o Eguzki assimilato a Thor. Ilargia o Ilargui (dove argi significa luce) era la luna ed il guardiano della morte; accompagnava nell’Aldilà, regolava il mondo della conoscenza segreta, della divinazione e della magia. Mari era dea della terra e Sugaar dio del cielo e della terra. Lur, infine, entità femminile, era figlia della terra. Mari, uno dei “principali geni del più antico mondo basco”, purtroppo ignorata dai grandi studiosi delle religioni antiche, come Umberto Pestalozza o Mircea Eliade, è riconducibile al concetto di Madre Terra, Madre Roccia, Madre Pietra, ed è madre anche del sole e della luna (entrambi femminili). In questa idea di Mari ritroviamo un parallelo con la figura della Potnia, anche se qui siamo già in una fase di separazione dell’unità terra-cielo-sole-luna-cosmo che contraddistingueva la Dea Madre mediterranea.

C’erano poi geni vari e il Basjun, il Bassa Jaun, il Signore dei Boschi, divinità di collegamento tra il mondo degli dèi e quello degli uomini.

Nella sua Histoire de Basques, Augustin Chaho scrive: “L’immaginazione dei Baschi, aiutata dalle reminiscenze confuse dei paesi che i primi Euskariens hanno abitato, non ha mancato di popolare i Pirenei di esseri misteriosi e bizzarri, che servono da legami superstiziosi tra la creazione materiale e visibile e il mondo fantastico delle larve e degli spiriti. Il più popolare di questi miti pirenaici è il Signore selvaggio (Bassa Jaon), sorta di mostro dall’aspetto umano, che i Baschi mettono al fondo del nero abisso, o nella profondità della foresta. La taglia del Bassa Jaon è alta, la sua forza prodigiosa; tutto il suo corpo è coperto di un lungo pelo liscio, che sembra ad una capigliatura; cammina all’inizio come l’uomo, con un bastone alla mano e supera i cervi in agilità. Il viaggiatore che accelera la sua marcia nelle valli o i portatori che riuniscono le loro greggi all’approssimarsi di un temporale, si sentono chiamare con il loro nome ripetuto da collina a collina; è il Bassa Jaon. Degli urli strani si mescolano con il mormorio dei venti e ai gemiti sordi dei baschi al primo lampeggiare del fulmine; è ancora il Bassa Jaon! Un nero fantasma, illuminato dal chiarore improvviso, si erge nel mezzo degli abeti o si accoccola su qualche tronco d’albero decrepito, spostando i lunghi crini tra i quali brillano i suoi occhi scintillanti, Bassa Jaon! Il cammino di un essere invisibile si fa percepire dietro di voi, il suo passo cadenzato accompagna il rumore dei vostri passi; sempre Bassa Jaon!”.

Il Bassa Jaon dei Baschi, secondo Augustin Chaho, è inverosimilmente l’orang outang, che secondo lui avrebbe dato origine anche ai silvani e ai satiri, ma dietro il Bassa Jaon si nasconde ben altro.

Il Bassa Jaon o Jaun è il Signore della natura, il Signore della Selva, il Signore del fare e poiché la lingua Euskara è la lingua delle mani, ossia dell’abilità manuale, il Bassa Jaon si evidenzia come un sapiente capace di operare sulla natura e di comprenderne gli intimi segreti.  Accanto al Bassa Jaun troviamo la Bassa Andera o Baxaandera, la Signora selvaggia, Signora della Natura.

Genio di sembianze umane, così come viene definito da alcuni, il Bassa Jaun è coperto di peli ed ha lunghi capelli accuratamente pettinati che scendono fino alle ginocchia. In tutta la simbologia mitologica i capelli sono simbolo di potenza e, pertanto, dei lunghi capelli ben curati sono una potenza, un’energia, custodita e alimentata con cura. Pettinare i capelli è simbolicamente ordinare l’energia. Il Bassa Jaun sa come indirizzare la forza.

Il Bassa Jaun è il Sapiente del Bosco che ritroviamo in molte leggende dell’arco alpino italiano e che, come spiega Massimo Centini[VII] è considerato il primo abitante della montagna, maestro dell’arte casearia, dell’apicoltura, delle tecniche minerarie e della metallurgia, creatore e insegnante di canti e proverbi (con funzione divinatoria e propiziatoria), conoscitore dei segreti della natura. Razionale e attento allevatore e mago alchimista della natura, il Sapiente del Bosco ha funzioni sacerdotali sciamaniche ed è considerato anche dio delle profezie.

La Donna Selvatica è compagna del Sapiente del Bosco e a volte vive in gruppi di donne.

Abitazione del Sapiente del Bosco è il riparo sotto roccia detto balma o barma

Sin qui le caratteristiche generali del Bassa Jaun che sicuramente lo allontanano mille leghe dall’orang outang a cui pensa Chaho.

V’è, inoltre, un tratto specifico che ha una grande importanza: il Bassa Jaun ha uno dei piedi a pianta circolare, tratto caratteristico che lo associa al dio della vegetazione. Sul rapporto piede, scarpa, calza, zoppo, claudicante si diffonde lungamente Margarete Riemchneider  con ampi riferimenti alle saghe del Graal e ai miti antichi sottostanti.

Mari è un genio femminile, anche se in alcune circostanze il suo aspetto può essere maschile. La forma più antica è androginica. Mari, questo il nome più antico della Dea, è considerata come la regina di tutti i geni che popolano il mondo e, come sottolinea José Miguel de Barandarian, “conviene avvertire che in alcuni paesi chiamano Andra Mari, «Segñora Maria», tanto la Vergine quanto l’altra Mari, genio della Terra o Terra personificata”.   Un’avvertenza, questa, di estrema importanza per comprendere come la Vergine Maria abbia potuto rivestire con nuovi panni la Dea Madre Mari, consentendo, sia pure nelle forme cristiane, la prosecuzione del culto dell’antica divinità. Assume, pertanto, ancora maggiore significato la domanda, che ci siamo già posti, se non sia possibile che una sapiente regia abbia utilizzato forme cristiane per dare continuità all’Antica Religione, sempre viva tra le popolazioni.

Mari  è “La Signora” o “La Dama”, Dea che vive nelle regioni abissali.  Un altro dei suoi nomi è Maya e il nome Mari, come suggerisce Barandarian, ha relazioni anche con Mairi, Maide e Maindi.

Le sue forme sono diverse: nelle regioni sotterranee ha aspetto serpentiforme; in superficie appare come una donna bellissima, elegantemente vestita, in atto di pettinarsi con un pettine d’oro (ancora una volta troviamo il riferimento alla capacità di ordinare e indirizzare la forza). Vestita con eleganza (a Lercuns ha una gonna rossa), Mari ha alcune volte nelle mani un palazzo d’oro.[xii]Nella sua casa a Aketegui ci sono letti d’oro, a Otsabio c’è una statua di un toro d’oro, a Airobi beltz si siede su una poltrona d’oro, a Otsibarra c’è un pettine d’oro che le apparteneva. Una manciata di carbone può trasformarsi in oro all’uscita della sua grotta. Mari ha i piedi d’uccello o di capra (a volte). Può essere pianta, roveto ardente, caprone, corvo, cavallo o giovenca, avvoltoio, raffica di vento, nuvola, arcobaleno, globo di fuoco, donna la cui testa ha come aureola la luna piena, falce infuocata che attraversa il firmamento. [xvii] Il simbolo di Mari è la falce di fuoco. Mari, dunque, è cielo, terra, luna e ha le caratteristiche (piedi d’uccello, corpo di serpente) della Dea Madre del Neolitico. E’ la Natura.  “Mari premia la fede di chi crede in lei. … Mari attende a chi da lei accorre. Se qualcuno la chiama tre volte di seguito dicendo AKETEKIGO DAMA, «Señora de Aketegui», lei si colloca sul suo capo …In alcuni casi si chiede consiglio a Mari”.  Chi ossequia Mari non avrà il raccolto colpito dalla grandine. Un omaggio alla Dea è deporre pietre o denaro nella sua grotta. “Chi va a consultare Mari o a visitarla deve usare certe accortezze: deve darle del tu parlando con lei; deve uscire dalla sua caverna nel medesimo modo con cui è entrato, ossia, se uno è entrato guardando verso l’interno, deve uscire altrettanto guardando verso l’interno (andando all’indietro), questa condizione è simile a quella che, secondo la tradizione, deve osservare qualsiasi persona all’apparizione dell’anima di un defunto, tenendola sempre davanti; non deve sedersi mentre è nella dimora di Mari”.   Chi entra nella dimora di Mari senza essere invitato o asporta qualche oggetto verrà castigato.

Mari è sposa di Maju, o Sugaar,  che appare come un serpente (il serpente di fuoco, la lava che sgorga dalle viscere della terra).

Apparentemente i due sposi vivono separati (Mari sulla terra e Maju-Sugaar nel mare), cosicché quando Mari e Maju si incontrano, si scatenano violente tempeste di pioggia, grandine, tuoni e fulmini. I Baschi, scrive Augustin Chaho, nella sua ricostruzione mitologica, che risente di molteplici influenze, “vedono nel fuoco centrale del globo il principio creativo e l’agente rinnovatore della terra: gli hanno dato il nome di Soughe, Serpente di Fuoco e Leheren (Lehen heren), Primo-Ultimo. Questo mito, emblema della lotta della natura, è lo stesso Leherenus, il Dio della guerra degli antichi Novempopulaninens”. I veggenti euskariens, secondo Chaho, avevano scoperto i cicli delle eruzioni e il Grande Serpente è colui che solleva le montagne e getta la struttura interiore, la materia fusa, alla superficie.

“Leheren-Soughe dormiva, girava su se stesso, nel lago interno, lo stagno di fuoco, la sua respirazione profonda faceva muggire gli echi dell’inferno; l’uovo-mondo che gli serve da inviluppo sembrava pronto a rompersi ai movimenti convulsivi che agitavano il mostro durante la sua letargia. Infine l’angelo di Iao lasciò cadere nell’oceano la sessantesima goccia d’acqua dalla sua clessidra che segna il tempo, proclamò la fine e la consumazione dei secoli e suonò le sette trombe di bronzo. A questo segnale Leheren, il Grande Artefice di Dio si svegliò e sorgendo dalle sue caverne, aprendo le sette gole spalancate dalle quali sorgono i vulcani, in dieci giorni consumò e divorò la vecchia terra, e dalla sua lunga coda, più abile di quella di un castoro, plasmò la terra nuova nelle acque del Diluvio; poi terminata la sua opera, il dragone, come il baco da seta che costruisce la sua prigione, si girò su se stesso e si riaddormentò, cullato giorno e notte da quattro geni, attendendo il risveglio dei secoli e l’aurora dei tempi nuovi. Tuttavia, una moltitudine di uomini e di donne, spaventati dalla fine del mondo, si erano rifugiati sulle montagne; furono mutati in pietre: questa metamorfosi durò dieci secoli, dopo di ché essi furono restituiti alla loro forma precedente dal canto divino di un uccello luminoso. I loro posteri ripopolarono, durante il primo tempo, l’Africa, la Spagna, l’Italia e la Gallia: essi dispersero le loro colonie in Oriente, fino alla Persia, che ricevette da loro il suo nome primitivo di Iran. I patriarchi  occidentali si chiamarono Euskariens; la storia dei Barbari li designò sotto la denominazione di razza del Sole e dell’Agnello; essi riconobbero come loro antenato il sublime Aitor, il primo nato dei veggenti.  …. La religione naturale fu l’elemento morale della socievolezza dei primi uomini e della loro unione politica in repubbliche federate, successiva alla moltiplicazione progressiva delle tribù. Il titolo di figli dell’Agnello si spiega con il termine Chourien, comune ai dialetti dell’India, della Persia e dell’Iberia spagnola, per designare sia un agnello, sia il sole, Agnello celeste che, attraversa ogni anno, trionfante, i dodici pastori zodiacali del firmamento”. Secondo Augustin Chao, arrivò in Galles la tribù dei Siluri, che Tacito riconosce come discendenti degli Iberi, ossia dei Baschi.

Mari solca il cielo con un carro trainato da cavalli ed è avvolta nelle fiamme. Appare anche come: arcobaleno, nuvola bianca, albero in fiamme, raffica di vento, uccello, falce di fuoco che si sposta da un picco all’altro; guida il cocchio trainato da quattro cavalli bianchi o vola in sella ad un ariete. Viene rapita da un toro come Persefone; è a capo di tutti i geni sotterranei; nella sua dimora, a volte, è in compagnia di geni animali o di fanciulle.

La Dea cambia spesso dimora e ogni localizzazione corrisponde ad un diverso personaggio, come non si trattasse di una medesima divinità, ma di una pluralità di divinità sorelle. Le caverne (akelarre) nelle quali vivono queste divinità sorelle sono la dimora delle streghe (sorgin).

Le streghe si trasformano spesso in gatti, talvolta in cani e montoni e si spostano spalmandosi con un unguento e recitando la formula: “Sazi guztien ganeti eta odei guztien aiztipi (sopra tutti i rovi e attraverso tutte le nubi)”.

Dall’incontro di Mari con Sugaar nascono due figli: Atarrabi (virtuoso) e Mikelatz (non virtuoso). Una lontana eco del Mikelatz la troviamo nel detto dialettale bresciano: “Fa ‘l méstér dèl Michelass, mangià, béèr, ‘ndà a spass”, ovvero fare il mestiere del Michelass, mangiare, bere e andare a spasso.

Mari o Signora di Amboto (Dea del Monte), compare in alcune grotte come avvoltoio, come cornacchia o donna con zampe d’uccello, come una falce o mezzaluna fiammeggiante o con il capo cerchiato dalla luna, monta-cavalca un ariete e fila con le sue corna usate come spole.

Marjia Gimbutas parla di interscambiabilità delle corna di ariete (serpentiformi) con le spire del serpente. Nella tradizione orale basca, ricorda Maria Gimbutas[xvii], il  caprone nero Akerbeltz (beltz=nero, da cui beltzebù come denominazione del demonio), protegge il gregge, aumenta la fertilità degli animali d’allevamento, ha potere terapeutico, tiene lontane morte e malattia. Benchè viva nelle regioni sotterranee, torna in superficie e spesso attraversa il cielo in forma di falce lunare fiammeggiante (così come la Dea basca). Il suo passaggio è presagio di un’imminente tempesta. Aker è il maschio del capro e ha un antenato nel precristiano Aherbelste (capro nero).

Ritroviamo in Akerbeltz una forma del Dio Cornuto e non a caso la “stregoneria basca, che tanta risonanza ha avuto nei secoli XVI e XVII, diede particolare notorietà a questa vecchia rappresentazione del nume sotterraneo. “Egli fu – scrive Barandarian – senza dubbio, nel sistema mitologico basco, una eco episodica, alla quale diedero risonanza straordinaria i temi stregoneschi di tutti i paesi che fermentavano molto nella mente degli intellettuali e degli inquisitori e dei giudici  dei processi e degli autodafé, sia nei semplici villani di Sara Zugarramurdi. Tuttavia nelle dichiarazioni degli accusati di stregoneria appaiono frequenti allusioni a Akerbeltz o a un capro nero e ad Akelarre, dove quello presiede le assemblee degli stregoni. Akerbeltz o genio in figura di capro era adorato (o si suppone lo fosse) negli Akelarre delle streghe e degli stregoni  nelle notti di lunedi, mercoledi e venerdi. I convenuti ballavano e offrivano al loro nume pane, uova e denaro. A giudicare dalla descrizione di alcuni atti  e credenze che si attribuivano da sé, si direbbe  che rappresentassero un movimento clandestino, nel quale si giunse a cristallizzare l’opposizione contro la religione cristiana e forse anche contro lo stato sociale vigente o ufficialmente riconosciuto nel Paese, anche se questo non era forse che un atteggiamento suggerito dalla mente dei supposti stregoni a causa delle domande dei loro giudici”.

Questa analisi di José Miguel de Barandarian, che è un sacerdote cattolico, ci propone la presenza di un movimento clandestino di seguaci dell’Antica Religione, perseguitati dall’Inquisizione come stregoni e ci ripropone la domanda: è possibile che un gruppo di iniziati abbia sapientemente condotto azioni tese a salvaguardare il culto della Dea Madre e del Dio Cornuto, ovvero delle due divinità archetipiche dell’antichità, modificando di volta in volta i loro nomi e le norme comportamentali del culto e dei riti, al fine di evitare le persecuzioni di una religione, come quella cristiana, divenuta poco tempo dopo la sua fondazione forma ideologica del potere temporale?

Dopo il capro, analizziamo il serpente, ovvero Sugaar, il cui nome deriva dalla radice basca su,  fuoco[xxv] (Gimbutas). Dalla radice su deriva suga o suge, serpente. Se si aggiunge il suffisso –ar significa “marchio” o anche “fiamma di fuoco”. Sugaar è dunque “Fiamma di fuoco”. La radice su è usata anche come calore in senso sessuale.

In Arcaitia (regione basca) Sugaar è chiamato Maju ed è il marito della Dea. Ogni venerdi le fa visita e la pettina. Il loro incontro provoca pioggia e grandine. La raffigurazione della fertilità altamente sessualizzata è evidente. La Dea è anche trainata da un serpente o su un’imbarcazione con testa di serpente: la “Barca del rinnovamento”. E’ interessante notare che in gaelico la farfalla è Maro[xxvii] e Maro ha la stessa radice di Mari. In sumerico Ama significa madre e ri(m) partorire. A Creta troviamo l’Amari minoico e a Cipro la Dea preindoeuropea Ay-Mari.

Infine, assai significativo è che i Liguri, eredi di quelle che Piero Barbieri chiama le genti atlantico mediterranee, veneravano il dio Mar, considerato anche un mitico condottiero. Da mar deriva Martino, nome del maschio della capra. “Nell’entroterra spezzino – scrive in proposito Paolo Barbieri – per incitare ad aggredire si dice ancora «zuca Martin!» (incorna Martino)”.

Mari, scrive conclusivamente Barandarian, “costituisce un nucleo tematico o punto di convergenza di un numero di temi mitici di diversa provenienza: uno indoeuropeo, l’altro del fondo preindoeuropeo. Tuttavia, facendo attenzione ad alcuni dei suoi attributi (dominio delle forze terrestri e dei geni sotterranei, sua identificazione con diversi fenomeni tellurici, ecc. ) noi siamo inclini a considerarlo come simbolo – quasi una personificazione – della Terra”.

L’Europa ripopolata dai Baschi

La cultura basca ha segnato di sé per lungo tempo l’Europa, accompagnandone la ripopolazione dopo l’ultima glaciazione. I Baschi, come è stato scientificamente provato, vivono stabilmente sul territorio di Euskal Herria da almeno 18.000 anni.

Recenti studi genetici e linguistici hanno stabilito una stretta parentela tra Baschi, Guanchi, Berberi ed Egizi. Il genetista Arnaiza Villena ha chiamato questo insieme di popoli “cultura usko – mediterranea”, una cultura che adottava un culto da lui definito della “Porta dell’oscurità”: un corpo di credenze associato alla Grande Madre e al culto delle acque.

Ricerche di genetica indicano ormai chiaramente che la maggior parte degli odierni europei ha antenati che vivevano in Europa già nell’era glaciale e che, analogamente a quanto suggeriscono gli studi linguistici, il ripopolamento d’Europa occidentale dopo la glaciazione ebbe prevalentemente origine “dal rifugio del nord della penisola iberica e del sud della Francia, ossia in Euzkadi, i Paesi Baschi.

Va sottolineato che la lingua basca non appartiene alla famiglia indoeuropea, come del resto le lingue del gruppo ugro-finnico: finlandese, estone, ungherese. Il basco, sia detto per inciso, da recenti studi viene associato al sumero e rientrerebbe nella famiglia linguistica “sino-tibetana, così come l’ainu, la misteriosa lingua dell’isola di Hokkaido in Giappone, già confrontata col basco a cui è molto simile”.

Il basco, secondo lo studioso Colin Renfrew, sarebbe la lingua degli uomini che popolarono le terre europee a seguito dell’espansione dall’Africa dei primi sapiens all’incirca 40 mila anni fa. In questa fase l’espansione “fu caratterizzata dallo stabilirsi del popolo basco, la cui lingua è considerata da Renfrew la prima parlata in Europa. Essa era molto più diffusa di oggi. Veniva infatti parlata sia nella penisola iberica, sia nell’attuale Francia. Alcuni addirittura la collocano nella maggior parte dei territori mediterranei”.

La ripopolazione d’Europa dopo l’ultima glaciazione, ossia nel periodo magdaleniano, oltre a riguardare l’intera Europa nord occidentale (una linea riguarda in modo specifico l’Italia settentrionale) è passata, attraverso lo stretto di Gibilterra, nell’Africa del Nord.