INGINOCCHIATI ALLA “DITTATURA MONDIALE DI IDEOLOGIE APPARENTEMENTE UMANISTICHE”

L’utilizzo dei simboli e dei gesti, attivato da una regia accorta, ha in questi giorni scatenato una furia iconoclasta e oicofobica, finalizzata a impedire che si possa metter in discussione il progetto di un Nuovo Ordine Mondiale, voluto, gestito e diretto da un ristretto gruppo di magnati della finanza, i quali si sono autoeletti élite illuminata, sull’esempio della Repubblica di Platone, a sua volta costruita sull’esempio dell’esperienza dei Trenta.

La Repubblica di Platone, infatti, non è solo un’asettica elaborazione filosofica, ma si pone come un manifesto politico, conseguente ad esperimenti reali e propedeutico alla loro continuazione.

In particolare, il riferimento è, come ben spiega Luciano Canfora, professore emerito all’Università di Bari, al governo utopico-sanguinario dei Trenta (404-403 a.C.), i cosiddetti «trenta tiranni», i quali, “pur dopo la sconfitta e il naufragio tragico del loro tentativo «palingenetico» hanno continuato a ritenere che si fosse trattato unicamente di un incidente di percorso, cioè di un esperimento da migliorare e riproporre”. [1]

Luciano Canfora ricorda come ci fossero esperimenti di governo pitagorico in corso in vari luoghi. “In Magna Grecia era in atto da tempo, con Archita, l’esperimento di governo pitagorico che, a sua volta, non era stato senza effetti come elemento ispiratore della costruzione platonica. Platone va in Sicilia a tentare la Kallipolis perché a Taranto c’è Archita che governa”. [2]

Canfora propone le critiche del tempo all’opera di Platone, prima fra tutte quella di Aristofane.

Sotto tiro è il ruolo dei «guardiani», pronti a combattere non solo il nemico esterno, ma chi all’interno agisce male. Un ruolo ben interpretato da tutti i totalitarismi e da tutti i dittatori succedutisi nei secoli.

Canfora ricorda la “polarizzazione negativa che Platone ha suscitato contro di sé e contro il suo spregiudicato interventismo politico” e come un “poco letto Aristofonte compose un Platone nel cui unico frammento superstite dovuto, al solito, ad Ateneo (XII,552 E = fr.8K-A) qualcuno dice, forse rivolto a Platone medesimo: «così in pochi giorni ci farai tutti morti»!”. [3]

Significativo l’attacco sferrato alla Kallipolis di Platone da Erodico di Seleucia, grammatico del II sec. a.C. (Contro il filosocrate). “I due punti più rilevanti su cui si concentra l’attacco – scrive Luciano Canfora – sono: la pretesa platonica di formare «l’uomo nuovo» come premessa fondante della Kallipolis e la deriva «tirannica» che immediatamente hanno preso coloro che, in varie città greche, dopo aver frequentato lui si sono impegnati in politica”. [4] “In altri termini – sostiene ancora Canfora – l’Accademia non fu semplicemente un «pensatoio» (come non lo fu del resto la meno strutturata ma non meno efficace cerchia socratica). E’ evidente che volle essere anche una fucina di potenziali «governanti» (…). Perciò, soprattutto perciò, dall’esterno è stata vista con sospetto: anche come un pericoloso luogo di formazione di aspiranti a governare in nome di allarmanti progetti”. [5]

Quell’idea platonica non è mai tramontata ed ora è di nuovo in atto con il tentativo di affermare un Nuovo Ordine Mondiale.

La furia iconoclasta e di proteste violente scatenata da un fatto esecrabile, avvenuto negli Usa, a Minneapolis, è il risultato di una strumentalizzazione per scopi politici evidenti (battere Trump), ma anche, e soprattutto, per dare spazio e forza ad una progressiva eliminazione della storia dell’Occidente, al fine di attuare una sorta di erasione di ogni tradizione, di damnatio memoriae della storia e della tradizione occidentale, per affermare una tabula rasa dove tutto è senza distinzione.

L’atto di inginocchiarsi, diventato virale, a seguito dell’evento di Minneapolis, non è un gesto di riparazione o di protesta, ma di sottomissione dal sapore feudale a quella che Benedetto XVI ha definito un “dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche, contraddicendo le quali si resta esclusi da consenso sociale di fondo”; è la genuflessione ai magnati della finanza auto elettisi prosecutori della tirannia di Trenta.

L’atto di inginocchiarsi ha assunto significati diversi nei secoli: da semplice gesto di cortesia, ad un semplice saluto, come per gli Egizi, che si salutavano inchinandosi con la mano sul ginocchio[6], fino ad assumere quello di un atto di omaggio e di riconoscimento del potere altrui, come nel Medioevo feudale.

Tuttavia, l’atto di inginocchiarsi ha un suo valore specifico e sacrale propriamente legato all’orizzonte vetero e neo testamentario.

“Se guardiamo alla storia – scrive in proposito Joseph Ratzinger (Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, parte IV – Forma liturgica, cap. II – Il corpo e la liturgia, n. 3 – Atteggiamenti, pp. 181-190) – possiamo osservare che Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi. Di fronte agli dei faziosi e divisi che venivano presentati dal mito, questo atteggiamento era senz’altro giustificato: era troppo chiaro che questi dei non erano Dio, anche se si dipendeva dalla loro lunatica potenza e per quanto possibile ci si doveva comunque procacciare il loro favore. Si diceva che inginocchiarsi era cosa indegna di un uomo libero, non in linea con la cultura della Grecia; era una posizione che si confaceva piuttosto ai barbari. Plutarco e Teofrasto definiscono l’atto di inginocchiarsi come un’espressione di superstizione; Aristotele ne parla come di un atteggiamento barbarico (Retorica, 1361 a 36). Agostino gli dà per un certo verso ragione: i falsi dei non sarebbero infatti altro che maschere di demoni, che sottomettono l’uomo all’adorazione del denaro e del proprio egoismo, che in questo modo li avrebbero resi «servili» e superstiziosi. L’umiltà di Cristo e il suo amore che è giunto sino alla croce, ci hanno liberato – continua Agostino – da queste potenze ed è davanti a questa umiltà che noi ci inginocchiamo. […]. In effetti, l’atto di inginocchiarsi proprio dei cristiani – prosegue Ratzinger – non si pone come una forma di inculturazione in costumi preesistenti, ma, al contrario, è espressione della cultura cristiana che trasforma la cultura esistente a partire da una nuova e più profonda conoscenza ed esperienza di Dio. L’atto di inginocchiarsi non proviene da una cultura qualunque, ma dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio. L’importanza centrale che l’inginocchiarsi ha nella Bibbia la si può desumere dal fatto che solo nel Nuovo Testamento la parola proskynein compare 59 volte, di cui 24 nell’Apocalisse, il libro della liturgia celeste, che viene presentato alla Chiesa come modello e criterio per la sua liturgia. […]. Osservando più attentamente possiamo distinguere tre atteggiamenti strettamente imparentati tra di loro. Il primo di essi è la prostratio: il distendersi fino a terra davanti alla predominante potenza di Dio; soprattutto nel Nuovo Testamento c’è, poi, il cadere ai piedi e, infine, il mettersi in ginocchio. I tre atteggiamenti non sono sempre facili da distinguere, anche sul piano linguistico. Essi possono legarsi tra di loro, sovrapporsi l’uno all’altro. […]. Nell’Antico Testamento ebraico alla parola berek (ginocchio) corrisponde il verbo barak, inginocchiarsi. Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo abbiamo da Lui. […]. Vorrei aggiungere solo un’osservazione: l’espressione con cui Luca descrive l’atto di inginocchiarsi dei cristiani (theis ta gonata) è sconosciuta al greco classico. Si tratta di una parola specificamente cristiana”. [7]

Nell’ultimo libro di Peter Seewald (Benedetto XVI, una vita), di prossima uscita anche in Italia e del quale sono state date alcune anticipazioni, il biografo del Papa chiede a Benedetto XVI: «Una frase dell’omelia sull’inizio del suo pontificato è stata particolarmente ricordata: ”Pregate per me che io non fugga davanti ai lupi”. Prevedeva tutto quello che le sarebbe successo?».

Benedetto XVI risponde: «Qui devo dire che il raggio di percezione di ciò che un Papa può temere è troppo piccolo. Naturalmente, questioni come ”Vatileaks” sono fastidiose e, soprattutto, incomprensibili per le persone in tutto il mondo ed estremamente dirompenti. Ma la vera minaccia per la Chiesa e quindi per il servizio petrino non sta in queste cose, ma nella dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche, contraddicendo le quali si resta esclusi da consenso sociale di fondo. Cento anni fa qualcuno avrebbe pensato che fosse assurdo parlare di matrimonio omosessuale. Oggi coloro che si oppongono a questo sono socialmente scomunicati. Lo stesso vale per l’aborto e la produzione di persone in laboratorio. La società moderna è in procinto di formulare un credo anticristiano e se uno vi si oppone viene colpito dalla scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è quindi fin troppo naturale e ci vuole davvero l’aiuto della preghiera della Chiesa universale per resistere».

Ecco cos’è l’Anticristo: la “dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche, contraddicendo le quali si resta esclusi da consenso sociale di fondo”. Detto in termini diversi, il pensiero unico politicamente corretto imposto da élite al servizio della finanza internazionale.

 

In questi giorni abbiamo assistito alla genuflessione ad una dittatura mondiale che, nell’orizzonte culturale del cristianesimo, ha i tratti dell’Anticristo.

 © Silvano Danesi

[1] Luciano Canfora, La crisi dell’utopia – Aristofane contro Platone, Laterza

[2] Luciano Canfora, La crisi dell’utopia – Aristofane contro Platone, Laterza

[3] Luciano Canfora, La crisi dell’utopia – Aristofane contro Platone, Laterza

[4] Luciano Canfora, La crisi dell’utopia – Aristofane contro Platone, Laterza

[5] Luciano Canfora, La crisi dell’utopia – Aristofane contro Platone, Laterza

[6] Tertulliano, La Preghiera, Introduzione di Piero Angelo Gramaglia, Ed. Paoline

[7] Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, parte IV – Forma liturgica, cap. II – Il corpo e la liturgia, n. 3 – Atteggiamenti, pp. 181-190.

 

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