“Ci scusiamo con i signori viaggiatori per il disagio”. La voce dell’altoparlante mi accompagna in continuazione, come un mantra, e segue la raffica di annunci di ritardo riguardanti ogni sorta di treno.
A Firenze santa Maria Novella c’è una brezza primaverile, ci sono anche le barriere che impediscono l’accesso ai binari a chi non ha il biglietto, ma quando sei dentro e aspetti che il tabellone delle partenze ti dica dove prenderai il tuo treno, non c’è nemmeno l’ombra di una sedia. Devi stare in piedi, perché così capisci che quando l’altoparlante, con quelle scuse inutili e ripetute, ti piglia per il culo (ogni eufemismo qui è fuori luogo), sei in piedi e ben attento. Per fortuna, il Frecciarossa sul quale devo salire, arriva con pochi minuti di ritardo e quando viaggia verso Bologna ne accumula una decina. La frase “in orario” nelle FS non esiste, è stata abolita dal vocabolario (politically correct), ma 10 minuti sono ancora sopportabili, visto che quando viaggio prendo tempi lunghi tra un treno e l’altro, proprio perché il ritardo è endemico. A metà strada tra Firenze e Bologna il treno si ferma. L’altoparlante annuncia che siamo in attesa del consenso a proseguire da parte del gestore della rete, che in sostanza è chi gestisce binari, instradamenti e stazioni, ossia ancora le Ferrovie dello Stato, con altra società. Bugia. Il naso si allunga, perché pochi minuti dopo lo stesso altoparlante annuncia che siamo fermi per un controllo al convoglio e che staremo fermi per trenta minuti. I passeggeri (che sono clienti e non carne da macello in trasferimento ferroviario) si agitano, perché saltano le coincidenze. Chiedo a un conduttore: “Che succede?”. Risposta intelligente. “Abbiamo un problema”. Fin lì c’ero arrivato anch’io. Ma io sono un viaggiatore (cliente!) di FS, ossia sono un Fesso e uno Stupido e in quanto tale non degno di spiegazioni. Devo solo subire i loro ritardi senza far domande. Punto.
Arriviamo finalmente a Milano con oltre 40 minuti di ritardo. Chiedo al capotreno cose me ne faccio del mio biglietto, visto che ho perso la coincidenza. Mi dice di salire sul primo treno utile, spiegando al suo collega che siamo arrivati in ritardo e che ho diritto a proseguire. L’altoparlante della stazione di Milano annuncia, mentre mi tiro dietro il trolley, che il regionale per Verona Porta Nuova è stato abolito. “Ci scusiamo con i signori passeggeri per il disagio”. I passeggeri diretti a Brescia possono salire sul Genova Brignole (che sta già chiudendo le porte) e scendere a Lambrate. E poi? Non si sa. La presa per il culo continua, imperterrita, urticante, vomitevole (il politically correct se lo tenga qualche mellifluo benpensante per farsi una tisana al veleno o anche un clistere). La gente si dispera. Vedo un Frecciarossa che sosta sul binario vicino e che va a Venezia Santa Lucia. Dicono che parte in ritardo di 40 minuti per difficoltà nella composizione del convoglio. Cosa vuol dire? Noi profani non possiamo capire. Salgo dicendo al capotreno quanto mi aveva detto il suo collega. Ho il biglietto Frecciarossa e quindi posso salire. Arriva un signore trafelato e dice: “Hanno abolito il mio treno per Verona, salgo qui”. Risposta: “No. Lei non può salire perché ha un biglietto per un regionale”. Ma se il regionale lo avete abolito voi, avete il dovere di mettere a disposizione altri mezzi. No. Il dovere non esiste. Esiste solo il diritto di prendere soldi. Il dovere di rendere un servizio è ciccia. Il Frecciarossa è mezzo vuoto. Il disgraziato poteva accomodarsi, ma è un paria e deve andare all’assistenza. Io, che sono un Fracciarossato, ossia carne da macello di superiore qualità, finalmente mi avvio verso casa. Ma non è finita.
Arrivo a Brescia e sento il solito altoparlante il quale annuncia che il treno per Cremona partirà con oltre trenta minuti di ritardo per un guasto sulla linea. “Ci scusiamo con i signori viaggiatori per il disagio”. Dentro di me si agitano la bisnonna Giovanna e il bisnonno Giuseppe, ferrovieri, casellanti delle Regie Ferrovie. Non lo dico ad alta voce, perché non è carino, ma l’ho pensato, lo confesso. Forse con me lo hanno pensato anche i bisnonni ferrovieri. Ho pensato: “Andate a cagare”.
Silvano Danesi